Giovedì 25 Aprile 2024
Il Tribunale di Trento ha riconosciuto il risarcimento per la dottoressa Tanya Trimarchi


Medica di S. Teresa morì per Covid, il giudice: "Fu infortunio sul lavoro e non malattia"

di Andrea Rifatto | 08/09/2022 | CRONACA

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La dottoressa Trimarchi si spense all'ospedale di Trento

A portarla via è stato il Covid-19, virus contratto durante una visita a domicilio ad un anziano morto due giorni dopo. Adesso la giustizia, con una sentenza che potrebbe “fare scuola”, ha stabilito che la sua morte è stata conseguenza di un infortunio sul lavoro e non di una malattia, riconoscendo un risarcimento alla famiglia. È il caso della dottoressa Tanya Trimarchi di Santa Teresa di Riva, medica di continuità assistenziale a Pozza di Fassa, frazione di San Giovanni di Fassa, in provincia di Trento, deceduta il 30 marzo 2020, a 57 anni, all’ospedale “Santa Chiara” di Trento per “polmonite da Sars Coronavirus associato”, dopo averlo contratto mentre visitava un 86enne durante l’orario di servizio, in quelle prime settimane della pandemia. Il suo nome fu il 63esimo nel triste elenco dei medici eroi caduti per il Covid-19, che oggi conta 375 vittime. Un fratello, unico erede della dottoressa Trimarchi, in virtù della polizza infortuni stipulata da Enpam per conto dei medici di medicina generale - non coperti dall’assicurazione sociale gestita da Inail - con Cattolica Assicurazione e Aviva Italia Spa (partecipazione al 40%), aveva chiesto alle compagnie l’indennizzo assicurato in polizza per il caso morte, pari a 125mila euro, ma sia Cattolica che Aviva avevano respinto la domanda, sostenendo che il Covid fosse una malattia e non infortunio e che non rientrasse quindi tra le ipotesi assicurate dalla polizza. Il familiare, rappresentato dall’avvocato Renzo Briguglio di Santa Teresa, si è quindi rivolto al Tribunale di Trento-Sezione Lavoro, che ha invece accolto la sua domanda riconoscendo l’indennizzo e condannando le società a pagare le spese di giudizio al ricorrente per un totale di 18mila euro.  

La polizza assicurativa riconosceva l’infortunio quale “evento occorso all'assicurato dovuto a causa fortuita, violenta ed esterna” e il giudice si è soffermato soprattutto nel valutare la sussistenza del requisito della violenza, analizzando la letteratura medico-legale e la giurisprudenza e stabilendo infine che “permane un apprezzabile dubbio interpretativo che non può non essere risolto a favore dell’assicurato”, anche in base all’art. 1370 del Codice civile secondo il quale nel dubbio le clausole di polizza devono essere intese in senso sfavorevole all’assicuratore. “La nostra domanda è stata accolta sul rilievo che, nella specie, era stata documentata e comunque appariva ‘più probabile che non’ l’origine lavorativa del contagio - commenta l’avvocato Briguglio - il che rende indiscutibile la qualificazione di infortunio sul lavoro, ricorrendone tutti i presupposti normativi compresa la causa violenta alla quale va equiparata la causa virulenta. La particolarità di questa sentenza - aggiunte il legale - rende evidente come anche i medici non strutturati, ma in convenzione con le aziende sanitarie di appartenenza, godono di tutela in caso di infortunio da Covid per effetto della polizza collettiva stipulata da Enpam”. Adesso, molto probabilmente, le compagnie assicurative proporranno appello contro questa sentenza, in quanto hanno già sostenuto in primo grado che vada esclusa la riconducibilità, affermata dalla giurisprudenza, delle ipotesi di infezione da contagio da fattori microbici o virali alla nozione di infortunio. 


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